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1938 Le leggi antiebraiche dell’Italia fascista

di Sara Berger e Marcello Pezzetti

Lavoro e proprietà

Il tentativo fascista di separare gli ebrei dal resto della comunità nazionale, politica che avrebbe dovuto portare alla loro emigrazione, è chiaramente visibile nella normativa degli anni 1938-1942 relativa alla revoca del diritto al lavoro. I licenziamenti portarono a un impoverimento delle famiglie, aggravato dal fatto che a quelle più povere venne negato ogni tipo di sussidio statale. Si iniziò nel mese di novembre del 1938 con l’espulsione degli ebrei da ogni impiego pubblico, da quello svolto all’interno dei ministeri e nelle amministrazioni delle province e dei comuni fino a quello nei trasporti pubblici, che toccò anche gli autisti dei tram. I divieti colpirono anche coloro che erano impiegati a vario titolo negli “enti e imprese parastatali o privati controllati o sostenuti dallo stato” e, naturalmente, nelle banche di “interesse nazionale”, così come nelle amministrazioni di imprese private di assicurazioni.

Nel 1939 un decreto toccò i liberi professionisti (avvocati, notai, revisori dei conti, medici, veterinari, farmacisti, ostetriche, ingegneri, ragionieri, architetti, geometri, chimici, agronomi, ecc.).

Tra il 1939 e il 1942 i divieti vennero estesi – anche attraverso il semplice ritiro delle licenze – a molte altre attività, comprese quelle ritenute più umili. Vennero colpiti gli insegnanti privati e gli ambulanti – attività prevalente nella comunità ebraica di Roma –, gli affittacamere e i venditori di oggetti sacri (cattolici), i commercianti di preziosi e i saltimbanchi girovaghi, i fotografi e gli allevatori di piccioni viaggiatori, i gestori di scuole da ballo e i venditori di stracci di lana, anche usata, ecc.

Nel 1942 furono licenziati coloro che lavoravano in aziende private ritenute “ausiliarie alla produzione bellica”, quali la FIAT, la Montedison, i cantieri navali, ecc.

Per ciò che riguarda i beni immobili, fu proibito agli ebrei italiani non “discriminati” di possedere terreni con un estimo superiore a 50.000 lire e fabbricati urbani con uno superiore alle 20.000.

I beni “eccedenti” andavano trasferiti all’“Ente Gestione e Liquidazione Immobiliare” (EGELI), l’ente costituito per acquisire, gestire e rivendere i beni sottratti agli ebrei. Nel 1940, dopo l’ingresso in guerra dell’Italia, all’EGELI fu affidata anche la competenza sui sequestri dei beni degli stranieri di “nazionalità nemica”.

 

01 Fernanda Di Segni

01 Fernanda Di Segni

In seguito al decreto-legge del 9 febbraio 1939 (art. 51-52), Fernanda Di Segni (1901-1967) è costretta a presentare la "denuncia" relativa alla sua azienda – vendita al dettaglio di calze, merceria e biancheria in via del Leoncino n. 12 a Roma. Fondazione Museo della...

02 Beni

02 Beni

Visualizzazione delle perizie degli espropri di importi, terreni e fabbricati a Roma nel 1939. L’Ente responsabile dell’amministrazione dei beni espropriati agli ebrei è il neo costituito Ente gestione e liquidazione immobiliare (Egeli). Archivio Centrale dello Stato,...

06a Ascarelli

06a Ascarelli

Regina Ascarelli (1907-1964) in via del Corso 80 a Roma davanti al suo negozio "Fantasie e profumi". Archivio privato famiglia Lattes-Ascarelli, Roma / Fondazione Museo della Shoah, Roma

06b Ascarelli

06b Ascarelli

Il negozio di Regina Ascarelli chiuso e sbarrato nel 1940. Verrà riaperto nel dopoguerra e continuerà la sua attività fino al 1969. Archivio privato famiglia Lattes-Ascarelli, Roma / Fondazione Museo della Shoah, Roma

07a Rodi

07a Rodi

Anche nell’isola di Rodi vengono svolte indagini sulle proprietà ebraiche. Qui sono evidenziati i casi dei fratelli Alhadeff (Ascer e Giuseppe) e di Isacco Alhadeff. Archivio Centrale dello Stato, Roma

07b Rodi

07b Rodi

Nella foto, scattata nel 1936, Isaac Alhadeff (seduto) e sua figlia Sarah (dentro l’auto) con il marito Robert Barcilon (seduto). Jacob Isacco "Haco" Alhadeff (1879-1955) è il fondatore della banca Isaac Alhadeff. Dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche emigra...

08 Ambulanti

08 Ambulanti

Fra giugno e luglio del 1940 viene deciso che gli ebrei non possono più essere venditori ambulanti, come comunicato dalla Direzione generale per la Demografie e la Razza alla Pubblica Sicurezza. Il divieto colpisce gli strati più poveri delle comunità ebraiche,...

09 Borsa

09 Borsa

Trieste, autunno 1938. Il Consiglio Territoriale delle Corporazioni proibisce l’ingresso in Borsa agli ebrei. Archivio di Stato, Trieste

10 Coen

10 Coen

Roma, 30 marzo 1939. Lettera di licenziamento ricevuta da Angelo Coen (1900-1963), impiegato presso la Banca Nazionale dell’Agricoltura (cfr. art. 13 del decreto-legge 17 novembre 1938 in cui si vieta alle "Amministrazioni delle banche di interesse nazionale" di avere...

11 Coen

11 Coen

Angelo Coen nel 1943. Archivio privato Raffaele Coen, Roma / Fondazione Museo della Shoah, Roma

12a Di Cori Roma 12b Di Cori

12a Di Cori Roma 12b Di Cori

Roma, 23 febbraio 1940. Notifica della cancellazione dall’albo dei medici di Ferruccio Di Cori (1912-2008), perché "di razza ebraica" (cfr. la legge del 29 giugno 1939, n.1054). L’iscrizione di Ferruccio era ferma dalla fine del 1938 in attesa di disposizioni, ma nel...

12c Di Cori 12d Di Cori

12c Di Cori 12d Di Cori

Due foto di Ferruccio Di Cori: la prima è scattata nel 1936, pochi giorni prima della laurea in Medicina e Chirurgia; la seconda nel 1947 a New York, dove si specializzerà in psichiatria. Fondazione Museo della Shoah, Roma Fondo Serena Viterbo

13a Chi è 13b

13a Chi è 13b

L’espulsione degli ebrei da quasi tutti gli ambiti lavorativi della società è evidente anche nelle modifiche inserite nel "Dizionario degli italiani di oggi". Qui l’edizione del "Chi è" del 1936 con i professori universitari, senatori, pittori, ingegneri e avvocati...

 

Il rabbino capo di Torino, Dario Disegni, l‘8 agosto 1940 fa un appello al presidente dell’UCII, Dante Almansi, a favore dei venditori ambulanti.

Ieri nella nostra città sono stati revocati con Decisione del Podestà tutte le licenze ai correligionari, anche discriminati, che esercivano il commercio di venditore ambulante.

Detta Decisione viene a colpire parecchi padri di famiglia numerosa, alcuni coniugi vecchi settantenni, che da tale commercio ritraevano il loro scarso guadagno, i loro unici mezzi di sussistenza da moltissimi anni, mettendo anche il banco in piazza nei giorni di mercato.

I medesimi in questi ultimi giorni erano stati inviati ed avevano pagato la loro tassa annuale di licenza.

Siccome si sono rivolti al nostro ufficio per appoggio ed aiuto, mi permetto di interessa l’E.V., perché si compiaccia di indagare se non sia possibile ottenere la revoca dei provvedimenti od una dilazione, per dar modo ai medesimi di liquidare quel poco di merce di cui ancora dispongono e che costituisce per alcuni il solo magro capitale.[1]

 

Anche i sopravvissuti alla deportazione nei Lager nazisti raccontano delle difficoltà lavorative patite a causa delle leggi antiebraiche.

Noi, come carattere e come romani, abbiamo alzato le spalle, non potevamo credere a quello che si diceva. Però queste leggi le ho vissute malissimo, perché è venuto a mancare l’unica cosa che ci dava sostegno finanziario: la licenza di commercio a mio padre e a mia madre. Mia madre, per tirare avanti, andava a vendere per le case della merce. Un bel giorno ci fu una spiata di una cliente fascista, la fece prendere con le mani nel sacco e fu condannata a quattro mesi di Regina Cœli. Mio papà s’arangiava pure lui, ma proprio negli occhi si vedeva la fame. (Giacomo Moscato, Roma)[2]

 

A papà gli tolsero la licenza, lavorava a mezza seranda. Si viveva senza far del male a nessuno: uno cercava d’arangiarsi come mejo credeva, se no morivamo di fame. Chi andava pe’ stracci, chi per metalli, chi vendeva bottoni o filo per cucire. I rapporti co i non ebrei sono peggiorati, perché noi avevamo una propaganda contro che faceva il Fascio. Tutte queste cose atecchiveno sulla popolazione e creaveno assolutamente l’odio incarnito nei nostri riguardi. Che io tante volte… quando andavo pe’ stracci e mi dicevano “Ma che sei, ebreo?”, più di una volta ho dovuto dì de no, per la sopravvivenza. A malincuore, perché è come se m’avessero dato ’na coltellata. Oggi lo scriverei a caratteri cubitali lunghi un chilometro ogni lettera! (Leone Di Veroli, Roma)[3]

 

Nel ’38, mi hanno assunto in pasticceria sulla motonave Saturnia, che faceva Trieste-New York. Arrivato a New York, un mio fratellastro, che abitava lì, mi dice: ”Guarda, ho ricevuto una lettera da tua mamma che in Italia le cose si mettono male. Con gli ebrei è scattata una legge, rimani qui con noi. Io ti trovo una ragazza, ti sposi, ottieni la nazionalità.” “No, io torno a casa. Devo salutare mio fratello, mia mamma e mio papà e poi, quando ritorno, rimango.” Invece, quando sono ritornato a Trieste, la compagnia mi diceva che, appartenendo alla razza ebraica, non ero più gradito. Sono stato sbarcato, mi hanno tolto la matricola di navigazione e così è finito il mio percorso. Cerco lavoro, ma non lo ottengo. E poi mi è successa una storia… volevo guadagnare qualcosa, mi sono imbattuto in una teppa di gente… per venire alle corte: era una banda di rapinatori e mi sono trovato coinvolto. Ho fatto il palo… siamo stati arrestati. In cella mi dicevano: “Sei minorenne, devi dire che sei stato tu che ci hai portato. A te ti scarcerano subito e così anche noi siamo a posto.” Io, da buon idiota, ci ho creduto. Tutto il processo si è svolto intorno a me perché ebreo. Il Presidente si chiamava Cardinale: “Evviva il Duce. Oggi abbiamo un caso particolare, una dimostrazione di cosa sono gli ebrei. Qui avete un esempio: ladri, rapinatori…” Il Pubblico Ministero ha fatto di me Al Capone. Mi hanno condannato a dodici anni! Per aver fatto il palo, per aver fatto l’idiota. E’ stato un processo politico; io lì sono arrivato come il cacio sui maccheroni: ero un ebreo che rapinava, che rubava. Questa è la dimostrazione cosa sono gli ebrei. I genitori l’hanno presa malissimo. Mio papà non è venuto a trovarmi, mi ha mandato a dire da mia mamma che si vergogna di me, non voleva saperne più di me. (Adolfo Grüner, Trieste)[4]

 

Giorgina Enriques Luzzati, nuora di Luigi Luzzati, ex Presidente del Consiglio, descrive in una lettera del 28 febbraio 1941 a Ernesta Bittanti le conseguenze drammatiche delle leggi per la sua famiglia.

La mia famiglia (né mi vergogno a dirlo, anzi ne sono orgogliosa per il nostro passato) ha bisogno di lavorare per vivere. Mio marito ha sessant’anni e si trova dimezzato il suo lavoro, per le note circostanze. Abbiamo ancora un ragazzo di 13 anni che darà tra poco l’ammissione al liceo scientifico,e – purtroppo – a carico nostro la famigliola della figlia maggiore sposata ad un ariano, il quale ci ha dato vari dispiaceri, con ripercussioni di indole finanziaria oltre che morale. Vede che le parlo proprio in confidenza e da amica. Abbiamo bussato a tutte le porte della nostra Scuola per la nostra Nella, ma senza risultato: tutti i posti sono già presi. L’insegnamento sarebbe stato il suo ideale, ma è inutile pensarci, e anche ripetizioni private nella sua materia non è stato possibile trovarne, se non nel mese di maggio.[5]

 

Ernesta Bittanti, vedova di Cesare Battisti, commenta le conseguenze per il mercato del lavoro causate dall’esodo degli ebrei.

Quanti uomini egregi, quanti giovani eccellenti, ebrei, sono già andati! Ma questa è un’automutilazione, un dissanguamento! In posti occupati da gente di lunga esperienza, sono frettolosamente sostituiti dagli incapaci.[6]

[1] UCEI, Centro bibliografico, Archivio storico, Rom, busta 85C-5, fasc. Provvedimenti razziali

[2] Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah italiana, Torino, Einaudi, 2009, pp. 27-28.

[3] Marcello Pezzetti, ibidem, p. 28.

[4] Marcello Pezzetti, ibidem, p. 33.

[5] Beatrice Primerano, Ernesta Bittanti e le leggi razziali del 1938, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2010, p. 85.

[6]  Beatrice Primerano, Ernesta Bittanti e le leggi razziali del 1938, Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, 2010, p. 70.

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